Quando le persone lasciano un segno

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Le persone arrivano, lasciano un segno, poi ripartono. Qui a Casa Astra, a sud del Ticino, le persone sono di passaggio, ma riempiono questo luogo delle proprie vite, con dolori, speranze, ansie, tentativi. Ho scelto anche io di arrivare e incontrare altre vite, qui in questo luogo di confine, che ospita 24 persone senza fissa dimora, in quella che era la vecchia Osteria del Ponte di Mendrisio.  Abbagliato dal sole della mattina, entro. La prima saletta è quella con il bancone e il bar e alcuni tavoli da perfetta osteria. Dalla cucina sbucano alcuni inquilini della casa. Senza fissa dimora! Persone che hanno bisogno di un tetto, in attesa di rimettere a posto una vita, caduta via, leggermente, su scale fragili e invisibili, per via di una distrazione, di destini malmessi, di passioni rincorse.

“Ci siamo trascinati male, sai. A 51 anni bisognerebbe essere forti e maturi ma invece si può essere ancora deboli. E lei è più debole di me, ne ha avuto di problemi pure lei. Abbiamo vissuto momenti brutti, ma adesso cerchiamo di risalire”. Italiano, mi descrive la sua vita e quella della donna ticinese che le sta affianco. Una vita di strade sbagliate, di quattro matrimoni lui, di due lei e di un amore conosciuto 30 anni prima, ma mai vissuto. “Poi un giorno la incontro di nuovo in un bar, ci guardiamo e in un attimo mi salta addosso e io l’abbraccio. Ci siamo ritrovati dopo 30 anni, adesso siamo qua in attesa di trovare una casa decente dove poter vivere anni tranquilli “.  Guardo la coppia, sorpreso nel pensare a come la vita, una sola, possa riempirsi di tante altre vite, due, tre, quattro di quelle che noi chiamiamo normali.

Mi alzo e vado nell’altra saletta, quella dove ogni giorno alle 12 e alle 19:30 gli ospiti mangiano insieme. C’è chi cucina, chi apparecchia tavola, chi pulisce e lava i piatti. Non ci sono turni, sarebbe inutile. A giorni un inquilino della casa tornerà nel suo paese, il Camerun. Era arrivato in Ticino per raggiungere il fratello e laurearsi in ingegneria. Poi il fratello muore all’improvviso e i sogni si spezzano. Gli studi si complicano per la necessità di sopravvivere, ma se non superi gli esami in Ticino non puoi restare. “Così alla fine, non mi hanno rinnovato il permesso. Da quel momento non ho potuto lavorare e molte cose sono crollate. Non c’è nessun modo per restare. Anche se trovo lavoro, i tempi e le condizioni sono ormai esaurite”.

Donato, il responsabile di Casa Astra mi spiega la filosofia del posto, i riconoscimenti ottenuti dalla Confederazione in quanto luogo che ospita persone senza una casa. Da parte del Cantone c’è un riconoscimento informale, i servizi sociali spesso inviano persone alla Casa. “In sostanza riconoscono che la nostra funzione sia utile, ma non riconoscono un contributo per sostenerci. La scelta di restare fuori dagli schemi previsti dalla legge ci dà maggiore libertà per ospitare persone per le quali spesso non sono previsti aiuti statali. Assurdo. Il resto delle spese le copriamo con le assicurazioni sociali che hanno gli ospiti, con le donazioni e la vendita di prodotti e cibo ai mercatini e alle manifestazioni”.

Girovago per la casa. In un angolo c’è un uomo sulla sessantina seduto con le cuffie davanti a un computer. Rumeno, deluso dalla vita e arrabbiato con l’Italia che lo ha deriso. “Ti sforzi a fare il bravo, a dimostrare che non sei una merda, inizi tutto di nuovo a 43 anni, da zero, imparando un’altra lingua, un nuovo sistema legislativo, un altro Paese. Trovi il lavoro, poi decidi di essere autonomo, metti su una partita iva come artigiano, piastrellista. Ma, ma quando l’ho fatto, non sapevo che eravamo persone da mungere”. Te lo dice lui come funziona il lavoro in Italia, nella ricca Lombardia, te lo dice lui, tranquillo. Lui ti dice come gli stranieri restano sempre stranieri e contano meno degli uomini. Una guerra, è una guerra tra furbi, stupidi e potenti. La mia mente ripete queste frasi continuamente, spinta dall’adrenalina che il 60enne  e le sue tesi hanno innescato nel mio corpo, dopo avergli chiesto qualche notizia sulla sua vita. Respiro, provo a calmarmi ed esco fuori nel piazzale davanti. Qui c’è uno strano signore con cappello a tese larghe e riccioli bianchi che sbucano sulla fronte. Indossa un cappotto lungo color cammello, pantaloni alla zuava e calzini bianchi che ricoprono le caviglie prospicienti. Si tratta di uno svizzerotedesco che ha deciso di non parlare più. Non parla. Va in giro con una colomba bianca sulle spalle o nel cappotto e canta con una chitarra, chiedendo offerte. Tutti qui lo conoscono, ma non conoscono la sua storia. Il silenzio e il mutismo sono le sue regole, anche se alle domande risponde, scrivendo su pezzi di carta. Vuole conservare la sua voce per cantare a Dio.

Proseguo, arrivo in giardino dove alcuni inquilini stanno potando e pulendo gli alberi sotto la direzione di Maria. C’è chi è bravo a usare la motosega, dopo una vita di cavalli. Alla fine la scuderia con cui lavorava lo ha licenziato e si è ritrovato senza niente.  C’è poi chi si trova qui perché non sa come riagguantare la vecchia vita, lavoro, matrimonio, figli, una casa e poi all’improvviso qualcosa cambia, scelte sbagliate, la mente fragile e i sensi di colpa che affliggono.

Si fa sera, è quasi ora di cena. “Tutto bene?”, l’aria è rotta dal saluto pimpante di un ragazzo. I suoi venti anni si fanno sentire pieni. È appena rientrato dall’apprendistato, ha fame, e all’improvviso mi fa: “Non puoi adottare un ragazzo di 10 anni, capito? Cosi anche loro hanno sbagliato, io gli dico grazie mille che mi hanno aiutato e portato via dall’orfanotrofio dove stavo, però mi chiedo, un momento, come si può adottare un ragazzo di 10 anni? E allora sono andato via”.

La cena ha soddisfatto tutti, altri inquilini parlano di ricerche di lavoro infruttuose, di relazioni sballate, di una moglie che non lo vuole più. Decido di lavare i piatti con gli altri. Chi sparecchia, chi sale su in camera, chi esce, è sabato sera dopotutto. Resto in sala a guardare un po’ di tv. Sulla Rsi danno un documentario sulle campane, ma io penso ad altro, alle vite che si inceppano su errori del passato, ai sogni stracciati dai confini stranieri, a quei tentativi coraggiosi stravolti dal destino, alle volontà totali divorate dalla furbizia, al calore raffreddato da una labile psiche o dai rimorsi inviolabili. Queste vite dicono che non potrà esserci più nulla. Più nulla, mi dicono, in questa sera di luna piena, davanti a un cielo stellato che riflette le Alpi del Ticino. In una sera come questa, che sola a vederla ti strazia il cuore di bellezza e fa pensare avanti, qualcosa c’è, c’è sempre qualcosa.

SALVATORE MEDICI

articolo pubblicato su Il Caffè 

 

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